SULPICIA: oblitus poeta
SULPICIA
E' stata la prima poetessa di epoca romana, o meglio, l'unica di cui ci siano giunte le opere. Vissuta nel I secolo a.C. circa, era di famiglia illustre, aristocratica: il padre, Servio Sulpicio Rufo era un oratore; il nonno, omonimo del padre, era un giurista; la madre Valeria era la sorella Marco Valerio Messalla Corvino un politico e generale romano, che intorno all'anno 30 a.C. fondò un circolo letterario del quale fecero parte anche Tibullo, Ovidio e Ligdamo. Grazie alla sua posizione sociale le era permesso frequentare gli ambienti esclusivi dell'altra società romana, compreso il circolo intellettuale che ruotava intorno allo zio Messalla, che nel frattempo, essendo morto il padre, ne era diventato il tutore. Le sue opere sono contenute nel "Corpus Tibullianum", ovvero la raccolta delle opere di Tibullio, all'interno del "ciclo di Sulpicia" che riunisce cinque elegie e sei componimenti detti "elegidia". Ma non è tutto così semplice, visto che l'esistenza stessa di Sulpicia è messa in discussione, in quanto l'io elegiaco narrante, ovvero la protagonista che canta questi versi, ancora non è certo se sia un personaggio immaginario o corrisponda alla voce della poetessa stessa, quindi realmente esistita: la maggior parte degli studi effettuati propende per questa seconda opzione. Nel "Corpus Tibullianum", chiamato anche "Appendix Tibulliana", sono contenute sei brevi elegie di Sulpicia conosciute col nome di "Elegidia", per un totale di 40 versi. A lei sono stati attribuiti anche i cinque carmi del ciclo conosciuto col nome di "Amicus Sulpiciae" e contenuto anch'esso nel terzo libro del "Corpus Tibullianum", oltre a due elegie in cui l'autore dichiara espressamente di essere Sulpicia. Probabilmente i suoi componimenti vennero inseriti nella raccolta di Tibullio perché le donne non avevano altre possibilità per farsi conoscere artisticamente e gli autori delle collezioni poetiche non prendevano in considerazione le opere di autrici, in quanto le ritenevano di qualità inferiore. Il fatto che siano stati erroneamente attribuiti a Tibullio ha permesso che giungessero fino a noi. A differenza però dei componimenti di Tibullio pensati per la pubblicazione, le poesie di Sulpicia sono semplici biglietti indirizzati all'amato o riflessioni scritte su un diario quindi espressione poetica di una relazione sentimentale veramente vissuta. Il ciclo "Amicus Sulpiciae" ci racconta la vicenda amorosa tra Sulpicia e l'amato Cerinthus ma qualcuno sostiene che in realtà le elegie siano state composte da altri, basandosi sui biglietti amorosi scritti dalla stessa Sulpicia. Nella prima elegia vengono esaltate la grazia e la bellezza di Sulpicia, vestita elegantemente per recarsi alla festa delle Matronalia, che si teneva nel mese di Marzo. Nella seconda l'autore afferma di essere Sulpicia, angosciata dalla pericolosa passione che il suo amato prova nei confronti della caccia e lei, nonostante i suoi timori, sarebbe disposta anche a seguirlo sui monti e nei boschi, inseguendo la selvaggina. Ma chi è questo amato Cerinthus? La critica l'avrebbe individuato, studiando il nome, che si trattasse di un amico di Tibullo, col quale forse Sulpicia si sposò. Ciò che rappresenterebbe una novità assoluta nella poesia dell'epoca è che, a differenza di quanto avvenuto fino ad allora, ovvero che erano i poeti a dedicare le poesie d'amore alle donne amate, nel caso di Sulpicia, per la prima volta, è una poetessa a cantare il proprio amore per un uomo, un rovesciamento dei ruoli tradizionali. Nella terza elegia l'anonimo amico di Sulpicia chiede al Dio della medicina, Febo, di guarire la giovane da una malattia, tranquillizzando così il suo amante; guarendola Febo sarà il più invidiato degli dei per la capacità delle sue arti. Nella quarta l'autore torna a parlare come se fosse Sulpicia dichiarando quanto caro le sia il giorno della nascita dell'amato Cerinto, al quale vanno i suoi voti di restare sempre reciprocamente avvinti da una catena. L'ultima elegia è una preghiera di Sulpicia alla dea Giunione, nel giorno suo compleanno, alla qual offre incenso, ben abbigliata per lei. Voti e doni che inducano la dea a far sì che nessuno separi mai i due innamorati, uniti da un mutuo vincolo d'amore. Nella prima elegia del "Ciclo di Sulpicia", la stessa afferma di essere innamorata non di un amore platonico, ma di un amore totale che non vuole tenere nascosto. E' un amore condotto a lei dalla dea Venere, per intercessione delle Camene, le muse ispiratrici dei versi della poetessa ma Sulpicia non vorrebbe cantare le proprie passioni ma come non cedere alle dolci sensazioni del peccato e fingersi virtuosa è fastidioso. Nella seconda elegia la poetessa pensa di dover trascorrere il proprio compleanno nella fredda campagna aretina, lontana da Roma ma soprattutto dal benamato Cerinto, ma così ha stabilito il suo tutore Messalla e a lei non resta che obbedire. Nella terza elegia apprendiamo che il viaggio è stato annullato e Sulpicia comunica all'amato la bella notizia, così potranno festeggiare il compleanno insieme. Nella quarta elegia scopriamo che Cerinto non si fa scrupolo a tradire l'amata, con una prostituta, una schiava mancando di rispetto al rango di Sulpicia e ciò lo rende un uomo ignobile agli occhi del mondo. Lei si ammala ed ha l'impressione che Cerinto non si preoccupi affatto di lei, la quale vorrebbe guarire solo se fosse sicura che è ciò che desidera anche lui. Nell'ultima elegia leggiamo una dichiarazione di amore e di passione: «Luce mia, possa io non esser più la tua ardente passione come credo di esser stata in questi ultimi giorni se io, in tutta la mia giovinezza, ho mai commesso un errore tanto sciocco, del quale io possa confessare di essermi più pentita, quale quello di averti lasciato solo la scorsa notte, per aver voluto nasconderti la passione che provo per te».
Ciò che traspare dal "Ciclo di Sulpicia" è il carattere di una donna diversa da quelle della sua epoca: determinata, emancipata, che viveva rifiutando le regole, con la possibilità attraverso la scrittura di parlare di sé, con la fortuna di non venire spazzata via nell'oblio del nulla.
"Venuto è infine amore, e vergogna maggiore
mi sarebbe averlo tenuto nascosto
di quanto sia infamante averlo rivelato a tutti.
Commossa dai miei versi, Citerea l'ha portato a me,
deponendolo sul mio seno.
Ha sciolto le promesse Venere: racconti le mie gioie
chi gode fama di non averle mai avute.
Io non vorrei affidare parola a tavolette sigillate,
per il timore che qualcuno le legga prima del mio amore.
Ma questo peccato m'è dolce;
m'infastidisce atteggiarmi a virtù:
tutt'al più si dirà ch'eravamo degni l'una dell'altro."